Definizione di criptovaluta nella normativa antiriciclaggio
La “valuta virtuale” come: “rappresentazione digitale di valore non emessa da banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale
La definizione di criptovaluta: Normativa antiriciclaggio
Gli unici interventi normativi apportati dal legislatore in Italia riguardano la disciplina antiriciclaggio. Con il d.lgs n. 90/2017 viene recepita la IV Direttiva Europea sull’antiriciclaggio andando ad aggiornare il Decreto legislativo n. 231/2007.
All’interno del Decreto viene definita la “valuta virtuale” come: “rappresentazione digitale di valore non emessa da banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
Il legislatore, con il recepimento della Direttiva, ha anche dato una definizione di “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale”, definendoli all’art. 1, c.2, lettera ff): “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”.
Successivamente, con il D.lgs 125/2019, viene recepita la V Direttiva antiriciclaggio UE 2018/843, che interviene sulla precedente disciplina prevista dal D.Lgs 231/2007 aggiornando l’art. 1 comma 2 lett qq).
Con il termine di “valuta virtuale” si definisce: “rappresentazione digitale di valore non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata ad una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
La definizione aggiornata interviene su due aspetti fondamentali:
- Oltre a non essere emessa, la valuta digitale non è garantita da una banca centrale;
- Viene utilizzata come mezzo di investimento, ampliando la funzione e comprendendotutte le attività che possono derivare dall’utilizzo di valute virtuali.
Inoltre, viene anche aggiornata la definizione di “prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale”. Al precedente articolo 1 comma 2 lett ff) è stato aggiunto la lett ff-bis).
Si arriva quindi alle seguenti definizioni:
- Prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale: “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”;
- prestatori di servizi di portafoglio digitale: “ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali”.
Nonostante la modifica, il legislatore italiano ha recepito in maniera differente quanto previsto dalla normativa comunitaria all’art. 3 punto 18.
Infatti, la norma europea definisce “valuta virtuale”: “rappresentazione digitale di valore che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata ad una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. La differenza è notevole: a livello europeo è specificato l’assenza dello status di valuta o moneta, a livello nazionale si lascia spazio all’interpretazione.
E proprio su queste incertezze si sono fondate le principali risposte dell’Agenzia delle Entrate sul tema della fiscalità: la risoluzione 72/E del 2016, l’interpello della Direzione regionale Lombardia n. 956-39/2018 e la più recente risposta n. 788/2021, hanno assimilato le valute virtuali a quelle estere configurando l’applicabilità dell’art. 67 c. 1 lett. C-ter) e comma 1-ter TUIR in tema di redditi delle persone fisiche.Il 29/11/2021 viene finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.Lgs n. 184 del 8 novembre 2021 che attua la direttiva UE 2019/713 relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti.
L'articolo 1 contiene la definizione di valute virtuali così come previsto dalla normativa comunitaria:
1. Agli effetti della legge penale si intende per:
«valuta virtuale»: “una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è legata necessariamente a una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o denaro, ma è accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio, e che può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”.
Quindi le valute virtuali non hanno lo status giuridico di valuta o moneta, conformemente alle definizioni europee.
La definizione di criptovaluta: Agenzia delle Entrate
Dal punto di vista tributario, i primi riferimenti alle criptovalute si hanno con la risoluzione 72E del 2016.
Il 2/9/2016 l’Agenzia delle Entrate risponde ad un quesito relativo ad una società che aveva intenzione di svolgere attività di acquisto e vendita di Bitcoin per conto dei propri clienti. Il quesito verteva sul corretto trattamento ai fini IVA e delle imposte sui redditi e sull’eventuale ruolo di sostituto di imposta nei confronti dei clienti.
Riprendendo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 22/10/2015, causa C- 264/14, in cui in riferimento ai Bitcoin era stata affermata la loro unica finalità come mezzo di pagamento. Questo in ragione del fatto che le operazioni di cambio di valuta tradizionale contro unità di valuta virtuale e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalle differenze tra prezzo di acquisto delle valute e prezzo di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti, costituisce prestazione di servizio a titolo oneroso.
Nella stessa risoluzione le operazioni in Bitcoin vengono assimilate alle valute estere specificando che “per quanto riguarda la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono Bitcoin al di fuori dell’attività di impresa, si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”.
L’assimilazione del Bitcoin (e del resto del mondo cripto) a valute estere, fa ricadere la disciplina fiscale dell’art. 67 del TUIR.
Sullo stesso filone, occorre citare anche la sentenza del TAR del Lazio sez. II-ter del 28 gennaio 2020 n. 1077. La sentenza verte sull’obbligo di monitoraggio tributario anche se ci sono alcuni elementi di natura fiscale. Vengono infatti citati l’art 67 c. 1 lett. C-ter e il c. 1-ter in riferimento alla tassazione delle operazioni a pronti in caso di plusvalenze “allorquando il prelievo derivi da prelievi da portafogli elettronici (wallet) o “conti digitali” per i quali la giacenza media superi un controvalore di euro 51.645,69 per almeno 7 giorni lavorativi continui nel periodo di imposta”.
Seguendo la logica interpretativa dell’Agenzia delle Entrate, si arriva alle seguenti conclusioni:
- Le criptovalute sono assimilate a valute estere, senza distinzione del tipo di utilizzo chene viene fatto (trading, staking, NFT ecc.)
- I wallet sono equiparati a depositi o conto corrente